Henry Chesbrough, il padre dell’Open Innovation, ha pubblicato un nuovo studio nel quale rivela che circa l’80% delle grandi imprese a livello internazionale segue le best practice dell’Open Innovation. L’Osservatorio Startup Intelligence del Politecnico di Milano evidenzia che anche in Italia la percentuale è in crescita, anche se ancora minore del 70%. A bloccare l’utilizzo di tali pratiche è la diffidenza culturale e il gap di competenze che accompagna le collaborazioni tra imprese, enti ed individui.
Se i dati sull’adozione crescente rappresentano una nota positiva, non mancano le difficoltà pratiche di implementazione e qualche perplessità sul reale impatto delle pratiche di Open Innovation. Infatti, esistono casi di insuccesso che, come spesso accade, portano a mettere in discussione il “what you do” invece che il “how you do it”.
L’Open Innovation è in prima battuta un processo di apprendimento che richiede tempo, sperimentazione e, necessariamente, insuccessi. Aprirsi all’innovazione significa abbracciare la complessità intrinseca di tale percorso che è rappresentata da:
1) Complessità organizzativa
2) Complessità di know-how scientifico e tecnologico determinato dalla Digital Innovation.
Per far fronte alla complessità è necessario imparare a governare e a gestire il processo di innovazione e ad integrarlo all’interno di schemi aziendali consolidati.